IL MARE DELLA RAN

Sono pochi gli ammiragli che hanno la fortuna di andare ancora per mare. Devono comandare e organizzare. Spesso stanno a Roma e il mare di Roma si chiama Ostia più che Santa Marinella, Formia o Civitavecchia. Quando un ammiraglio sale su una nave si reca sulla plancia per salutare il comandante e gli altri ufficiali e, dentro di lui, è forte la tentazione di dare le istruzioni al timoniere o all’ufficiale di rotta. Ma non lo fa perché un alto ufficiale prima di tutto sa rispettare il comando di chi è sotto di lui nella scala gerarchica. Il mare dell’ammiraglio è questa nostalgia di comando, ma anche l’intelligenza del rispetto. Perché stare su una nave è sempre rispettare chi la comanda indipendentemente da chi si è.

Regata della Accademia Navale

Il primo comando è non meno e non molto più di quattordici anni dalla notte sulla Vespucci in cui quel Tenente di Vascello avevo scelto con i suoi compagni di corso il nome da dare al mare. Il primo comando è l’ansia di essere il primo a salire a bordo per controllare che tutto sia a posto, che le scorte siano in ordine, che il materiale di rispetto sia accessibile quando ce ne può essere bisogno e quando ce n’è bisogno non c’è tempo di cercare. Ma è anche il bisogno, il bisogno esistenziale, di essere l’ultimo a scendere, perché il comandante di una nave è colui che non può scendere a terra senza avere controllato che tutti gli uomini che gli sono stati affidati siano scesi prima di lui. Senza essere sicuro di averli riportati tutti in porto. Salire per primo e scendere per ultimo è, forse, l’essenza del comando. 

La vita dell’aspirante è una corsa. Corre per andare a lezione. Corre per studiare. Si ferma in piedi dinanzi alla cattedra per sostenere, sugli attenti, gli esami di profitto. La corsa dell’aspirante ha una meta. La crociera estiva sulla nave più bella del mondo: l’Amerigo Vespucci. Alla fine di quella crociera, di quell’unica crociera estiva che tutti gli ufficiali della Marina Militare hanno fatto, una crociera lunga novant’anni, l’aspirante sa che la sua classe si riunirà nel ventre più profondo della nave e non ne uscirà fino a quando la classe non avrà deciso il proprio nome. E’ il mare che decide il nome della classe. Il mare ascoltato dal ventre più profondo della nave.

Il mare del nostromo è una esatta nave. Gli ufficiali cambiano. I nostromi, invece, restano, a lungo e imparano a conoscere quella nave, i suoi rumori e i suoi capricci. Le navi sono esseri mutevoli che diventano belli solo per chi ne sa assecondare i capricci e viziare i desideri. Per il nostromo, il mare è anche lo spazio in cui – senza troppo parere – addestra gli aspiranti e i guardiamarina, li guarda crescere e li prepara al primo comando. Con l’intelligenza di un padre che insegna ai propri figli l’arte del comando, gli insegna come lui stesso vorrebbe essere comandato.